Un approccio di ricerca integrato verso una nuova valorizzazione ed una conservazione sostenibile dei manufatti organici nelle collezioni dei Musei Reali

I MRT hanno, all’interno del Museo di Antichità, sia esposti sia in deposito, più di 2.000 unità di materiale organico di origine animale. La definizione di ‘unità’ raggruppa un insieme di sottoparti: alcune corrispondono a siti che hanno restituito meno di una decina di oggetti in materiale organico (poche faune o manufatti specifici), altre, invece, al materiale di scavo di intere necropoli (da qualche decina a centinaia di ossa ciascuno). A questi si aggiungono oggetti esposti lungo il percorso di visita (almeno il 10% di tutti i reperti esposti nel padiglione Territorio e nel settore di Archeologia a Torino).

In generale tale categoria di beni può quindi essere suddivisa nelle seguenti classi:

– tools preistorici, tra le prime testimonianze di ‘attrezzi’ e ‘utensili’ utilizzati per la lavorazione delle pelli (manifattura ante litteram) provenienti dal Piemonte preistorico;

– oggetti di uso quotidiano o di prestigio provenienti dal mondo classico e medievale (ornamenti e fibule; cofanetti per il trucco; set da scrittura composti da vari tipi di stilo e contenitori per inchiostri; parti di rivestimento di mobilio; fino a pedine e strumenti per il gioco, aghi e conocchie);

– un repertorio paleofaunistico di grande rilevanza per la ricostruzione del paleoambiente piemontese e degli ambienti lacustri alpini (parte della collezione Gastaldi e i reperti patrimonio UNESCO dal sito palafitticolo di Viverone nonché i materiali della necropoli di Chiomonte);

– una collezione di resti umani di primaria importanza di cui una parte molto ampia proveniente dagli scavi delle necropoli piemontesi effettuati dal 1982 al 2007.

Questi materiali non sempre di facile esposizione museale per lo stato di conservazione o per la loro natura intrinseca, sono carichi di informazioni per la ricostruzione storica di un territorio. Si tratta di informazioni prima ‘invisibili’, oggi rilevabili grazie alle biotecnologie, e dalla gestione e interoperabilità tra grandi sistemi di informazioni, gestibili come Big Data anche in archeologia.

Sulla base di queste premesse, le tecniche biologiche costituiscono un canale parallelo, se non alternativo, rispetto alle più note tecniche di indagine chimico-fisiche applicate ai beni culturali, il cui potenziale è oggi tutto da esplorare.

Il Progetto #Bones, condotto in convenzione con il Dipartimento Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi (DBIOS https://dbiosen.campusnet.unito.it/do/home.pl), con la Prof.ssa Beatrice Demarchi, Professore Associato di Metodologia della ricerca archeologica, e il laboratorio ArchaeoBiomics – Biomolecular Archaeology and Osteology (https://www.facebook.com/PalaeoTo1/) da lei diretto e coordinato, affiliato al DBIOS e al centro di una fitta rete di collaborazioni europee intende quindi provare a rispondere alle seguenti domande:

  • siamo in grado di ottenere informazioni innovative dai manufatti in materia organica conservati nelle collezioni dei Musei Reali?
  • siamo in grado di ricavare informazioni dalle collezioni archeologiche che possano apportare nuova conoscenza nel rapporto uomo/ambiente, riguardo l’archeologia della produzione, la presenza di specie non riconosciute e lo sfruttamento delle materie prime?
  • siamo infine in grado, dall’analisi di questi manufatti, di monitorarne conservazione e degrado?

Il primo passo di questo progetto quinquennale è costituito da una accurata valutazione e quantificazione del materiale organico archeologico nei depositi. In secondo luogo si è provveduto a individuare i casi studio, tra i manufatti e gli ecofatti in osso, avorio, conchiglia, scelti per testare la potenza interpretativa ‘in scala’ diversa  (microscale/mesoscale/macroscale/megascale):

uno ‘micro’ : una fibula a delfino della Collezione di fibule protostoriche Assi -> un oggetto singolo;

uno ‘meso’: i pettini provenienti dalle necropoli longobarde piemontesi nella sezione territorio, un insieme di 26 oggetti culturalmente definiti, appartenuti a tre fare longobarde piemontesi diverse;

uno ‘macro’: le faune dai siti pre-protostorici piemontesi pedemontani e perilacustri di Chiomonte e Viverone.

Il passo successivo consiste invece nell’applicazione del metodo ZooMS (Zooarchaology by Mass Spectrometry), metodo utile per il riconoscimento delle specie, la principale tecnica biomolecolare in uso, sui campioni selezionati.

Per l’estrazione di proteine antiche verranno inoltre utilizzati tre metodi non distruttivi:

– PVC Eraser” Method (Fiddyment et al, 2015, PNAS, 112, 15066-15071)

-“Plastic bag rubbing” (McGrath et al, 2019, Sci Reports 9, 11027)

-“EVA” Method (Demarchi et al, 2020, J Archaeol Sci 119, 105145)

Le analisi avranno l’obiettivo primario di riconoscere le specie animali che hanno fornito la materia prima per produrre gli oggetti, così come verranno sfruttate per approfondire l’osservazione dell’attuale stato di conservazione e progettare strategie conservative, inserendo anche lo studio di questa categoria di manufatti ed ecofatti in un panorama davvero internazionale.